Tradita dalla vanità, come spesso succede. La dermatologa, per via di certi miei malanni in via di guarigione, mi ha intimato di non prendere nemmeno un raggio di sole. Io, è noto, sono ubbidiente e applico con scrupolo idratanti a schermo totale e fondotinta protettivi. È il 10 di giugno e sono di un candore epidermico abbagliante. Ma vorrei un poco di colore. Solo un poco, giusto una doratura.
Mi faccio dunque tentare dai magici fluidi autoabbronzanti: credo alle promesse di beltà e splendore e mi ci impegno con il metodo che mi contraddistingue. Sono anni che mi spalmo oli, unguenti e creme, con mano uniforme e dita capaci, vuoi che non riesca a fare lo stesso con questo po’ di colorante in superficie? E così mi faccio un peeling e spalmo, solo sulle gambe. L’odore non è gradevole, ma spero di sentirlo solo io. Dopo tre ore ho le gambe abbronzate. A chiazze. C’è da dire che i piedi sono uniformi, anche se di una sfumatura leggermente diversa, che vira sull’ocra. Più su, una riga decisamente netta mi divide in due la coscia sinistra, nel punto esatto in cui ho applicato la striscia di crema: da una parte sono abbronzata, dall’altra tendo leggermente al rame.
Decido di uniformare il tutto sotto la doccia: recupero il guanto da scrub e massaggio piano in mezzo ai vapori. In pochi istanti osservo sgomenta l’acqua ai miei piedi diventare color ruggine. La mia abbronzatura posticcia raggiunge in un attimo lo scolo e il mio consueto pallore fa capolino su cosce e polpacci. Almeno, questa era la speranza. Chiudo l’acqua, esco dalla doccia e mi asciugo. Fingo di non accorgermi che ho lasciato tracce di mogano sull’accappatoio color crema e mi vesto. Ora indosso un paio di shorts e non faccio che guardarmi le gambe, pensando che mi riconoscereste facilmente: sono quella con le ginocchia arancioni.