Il foglio dell’accettazione viene stampato alle 19.33 e riporta il numero 96. Mi assicurano che la numerazione è casuale, non progressiva. Per ragioni di privacy non possono chiamarmi per nome all’altoparlante, lo faranno solo per numero, quindi ora sono il 96, ma potrei essere il 107, il 43 oppure il 12, non cambia. A questo punto perché, invece dei numeri, non assegnare una parola casuale? Tipo Coccinella, Gattonero o Meringata. Mentre penso che proporrò questa innovativa procedura al Servizio Sanitario Nazionale mi rendo conto che non saprò mai se e quante persone ho davanti. In attesa non sembrano tante, però questo è il pronto soccorso del Centro Traumatologico Ortopedico e arrivano emergenze e traumi da tutto il nord Italia. Io sono arrivata con le mie gambe e non ho sangue a vista, quindi mi viene assegnato un codice bianco. Perché uno inferiore non è contemplato. Mi siedo a fatica su una seggiola in alluminio e mi guardo intorno muovendo solo gli occhi, come i camaleonti. Da ore ormai ho smesso di usare il collo e parte della schiena, impietrita da un incantesimo che ha reso le mie vertebre cervicali, dolenti da qualche tempo, del tutto incapaci di rispondere ai comandi più semplici.
Sono inamovibile.
Le prime due ore passano con consapevole rassegnazione. Quando uno va al pronto soccorso le prevede. Anche la terza scivola via, pur se con qualche sofferenza in più: sono le 22.30, provo dolori sconosciuti, sono digiuna, le luci al neon mi confondono e la seggiola in alluminio inizia a farmi l’effetto di una graticola. Un signore alle mie spalle si lascia scappare un’esclamazione di disappunto rivolta a una nota divinità cattolica: lui e la moglie sono arrivati un’ora prima di me, lei è caduta e ha evidentemente un polso rotto, lo vedo persino io che di mestiere non riparo ossa. Quando finalmente la chiamano la vedo dirigersi verso il reparto di corsa, quasi temendo che un ritardo di qualche secondo provochi la perdita del posto a favore di qualcun altro. Tipo me. Io ho smesso di parlare da tempo. A un certo punto, verso le 23, vado dall’infermiera e le chiedo con un bisbiglio se ha idea di quando sarà il mio turno. Lei controlla un monitor e dice: “Lei è la prossima”. Ancora non so che dice così a tutti da quaranta minuti e me ne torno a posto con una speranza nel cuore. Non teme ritorsioni perché dopo qualche istante si alza, spegne le luci nel suo gabbiotto, chiude tutto e annuncia: “Dopo le 23 l’accettazione chiude, per le emergenze andate direttamente in reparto. Buona notte”. E scompare. È solo a quel punto che tra di noi in attesa ci si confida di essere “i prossimi chiamati”. Tutti quanti. Un tizio al mio fianco aiuta la moglie zoppicante ad alzarsi, invoca alcuni santi e se ne va. Sono le 23.30 e l’altoparlante gracchia il loro numero. Spiace pensare che se avessero pazientato un minuto di più finalmente la claudicante avrebbe avuto assistenza. Ma mi rallegro di nascosto, lo confesso, perché subito dopo viene chiamato il 96. Mi alzo col fiero portamento indotto dalle vertebre inferme e mi dirigo in reparto.
“Entri nello stanzino e si tolga la maglia” mi dicono.
Lo stanzino è minuscolo, mi sfilo la maglia con sofferente goffaggine. Entra l’ortopedico che mi visita in nove secondi, mi lega sotto al mento un collare, mi fa un’iniezione e mi mostra una striscia blu in terra.
“La segua” mi dice. “Quando arriva di fronte a una porta si fermi. Vedrà una vaschetta su un tavolino. Ci metta questo foglio dentro e aspetti”.
Sul foglio c’è la prescrizione per una radiografia e la striscia blu in terra conduce in Radiologia. Sono le 00.23. Il dolore mi annebbia i sensi, non sono lucida mentre seguo il mio sentiero fin di fronte a una porta verde. La vaschetta, penso. Dov’è la vaschetta. Non c’è nessuno e il silenzio è irreale. Questo è una specie di strano limbo onirico. Appoggio il mio foglio nella vaschetta di plastica che sta sotto il simbolo giallo e nero che indica la presenza dei raggi x e mi siedo in composta, ubbidiente attesa. Passa qualche minuto, chi può dire quanti, e la porta verde si apre con un sibilo automatizzato. Ne esce la giovane radiologa del turno di notte e mi chiama per nome. Lì per lì mi confondo e non mi riconosco. Aspettavo che chiamassero il 96. Quel che segue è un lampo: mi mettono una gonnetta piombata e mi lasciano sola in una stanza in penombra. Da dietro un vetro lontano la giovane dottoressa guarda dentro una macchina. Mi sistema la posizione due volte. “Non ondeggi” mi dice. Non mi rendo conto che sto seguendo il ritmo di una qualche segreta dolente danza.
In un attimo sono fuori. Aspetto con pazienza il referto e seguo a ritroso la striscia blu sul pavimento fin dall’ortopedico. Nuova attesa. Ritornano a chiamarmi per nome. Di nuovo mi confondo, ma reagisco con tutta la prontezza che il dolore mi consente.
“Senta lei” mi chiedono “che genere di trauma ha avuto?”
“Prego?”
“Vede questa curva delle vertebre cervicali?”
“Eh”
“Dovrebbe essere esattamente al contrario”.
Ci sono voluti un dolore improvviso, una manciata di ore sotto le luci al neon di un pronto soccorso e un fascio di raggi x per scoprire che la mia spina dorsale ha una curva al contrario proprio lì dove dovrebbe sostenere il cranio, la testa, i pensieri. Il che apre scenari di mondi a rovescio davvero insospettabili.