“Guarda quella scheggia! È dei nostri?”.
Mentre lo chiede la guarda con incredula sorpresa: la bimba
ha nove anni e schizza con la bmx nel percorso a ostacoli. È velocissima. Si
butta nei fossi, riemerge dal fango su ponticelli semoventi, dune artificiali,
sentieri di ghiaia. L’ultimo tratto è un rettilineo su prato, facile. Prende
velocità e arriva al traguardo con il trillo del cronometro che annuncia il tempo
migliore della squadra, di tutte le squadre.
“Maestra, sono andata bene?” lo chiede col fiatone, il fango
sulle ginocchia, il caschetto aggrappato al mento.
“Sei in testa!”. Lo dice con trionfo e allegria. La bimba più
veloce del torneo.
“Tocca a te adesso”. Si gira verso di me, sul volto ancora
il giubilo del record della mia compagna. Voglio quello stupore anch’io, che mi
guardi con quello stesso stupefatto saluto. Lo penso con invidia e preoccupazione
mentre sistemo le ginocchiere e stringo il casco.
La bicicletta è troppo alta, ma non lo dico ad alta voce.
Sono sulla striscia di partenza, tirata a calce sul prato. Il
cronometro parte, l’insegnante strilla. Via.
Mentre cerco il ritmo e la velocità penso che voglio fare
come lei, che desidero lo stesso suo vivace balzo nella terra, allacciata al
manubrio con quella furia gioiosa e prepotente. Desidero la sua raggiante incoscienza,
anche se ancora non so che si chiama così.
Mentre sono sull’ultimo rettilineo, quello che mi conduce al
traguardo, dove mi immagino di trovare lo stesso divertito entusiasmo, ho il
tempo di pensare che ho avuto paura, almeno un paio di volte, di cadere.
“Maestra, sono andata bene?” lo chiedo frenando.
“Sì, bene” risponde lei.