giovedì 20 agosto 2009

Spiaggia e senilità


Eccomi di ritorno. Dodici giorni di mare e una certezza consolidata: non sono più quella di una volta. Sto parlando dell’avanzare inesorabile del tempo ovviamente, che fa di me un’attempata bisbetica bagnante, simpatica come un giro di valzer su uno scoglio di ricci. Lo dimostrerò con lucide osservazioni, pronta ad ammettere l’inammissibile.
Tanto per cominciare, nonostante la mia prenotazione su Moby Line prevedesse un impavido passaggio ponte notturno, la prima cosa che ho fatto nel salire a bordo è stata cercare una cabina. C’era. E di questo ringrazio il dio protettore dei pigri e degli indolenti, che ha evitato che mi accampassi sul pavimento di un sottoscala, vicino a una famiglia con tre figli sotto i 6 anni e due barboncini. Ma andiamo avanti. Nei primi anni Duemila la mia giornata era più o meno la seguente: dormivo fino alle 11, facevo colazioni ricche di grassi polinsaturi e andavo in spiaggia, dove rimanevo dalle 12 alle 20. Restavo otto ore di fila sotto il sole, spalmata di unguenti a filtro 0, coltivando abbronzature ai limiti della tollerabilità dermatologica. Avevo i capelli felicemente arruffati dalla salsedine e sguazzavo beata sul bagnasciuga, concedendomi pause per pranzare al chiosco più fetido del litorale, con pasti a base di frittelle, monumentali gelati e birre ghiacciate. Alla fine degli anni Duemila la mia permanenza in spiaggia è più o meno la stessa: dalle 12 alle 20. Solo che, qualunque sia l’ora in cui vado a dormire, apro gli occhi senza sveglia al massimo alle 8 e mezza. Approfitto delle ore guadagnate per allestire sportine da pic-nic con pranzi a base di tabulè con verdurine crude, carotine in pinzimonio e tranci di frutta fresca. Bevo solo acqua naturale e dalle 12 alle 19 e un quarto sto sotto l’ombrellone, con cappello di paglia e crema solare a schermo totale. Detestando mortalmente l’effetto corteccia morente che il mare distribuisce equamente sulle chiome femminili ho comprato, per una cifra non divulgabile, una lozione protettiva per capelli. Ora non temo più né iodio né salsedine e in profumeria hanno affisso una targa col mio nome. Sono insofferente alla sabbia e ai minorenni che me ne mandano in faccia palate nello sbattere incautamente asciugamani lerci e infradito di paglia. Auguro silenziosamente un bagno al largo con le meduse ai giocatori di racchettoni, che si fanno vicendevolmente il tifo urlando a tre passi dalle mie orecchie, e spero di vedere presto almeno un piccolo eritema sulla pelle perfetta di quella biondina ventunenne che mi passa davanti sculettando settanta volte al giorno, portandosi in giro una bellezza a dir poco sfacciata. La mia compagna di ombrellone, che appena qualche anno fa vantava invidiabili competenze di gossip vacanziero, sta ora dedicando l’estate ad amene letture: l’ho colta in flagrante con un tomo di Balzac tra le mani, la storia in quattrocento pagine della cugina Bette, una zitella francese acida quasi come noi. E io non sono da meno: un tempo campionessa di cornici concentriche e incroci obbligati, tengo ora tra le mani, per discutibili motivi accademici, una roba illeggibile della scuola di Francoforte, la cui prefazione recita testualmente “questo è un saggio difficile, a tratti persino noioso”. E vogliamo parlare delle conversazioni? Mi sono sorpresa più volte, con la compagna di ombrellone di cui sopra, a parlare di malattie. Malattie, capite? A vent’anni ci si dava consigli su come prevenire quelle veneree, adesso ci si scambia opinioni sulle patologie degenerative.
Anni fa, se ti suonava il cellulare, era il barista dei Bagni Sardine Selvagge per invitarti al falò di Ferragosto o al massimo tua madre, cui potevi comunicare lieta l’avvento di una micosi sulla spalla destra. Adesso se ti suona il telefono è il tuo collega che ti chiede per cortesia se puoi richiamare il dott. Panella che deve parlarti di una cosa urgente. Tua madre continua a chiamare naturalmente, solo che invece di chiedere se ti sei scottata, adesso ti domanda se vedere tutti quei bambini in costumino non ti mette finalmente in moto una sana voglia di maternità.
Una volta, una serata in spiaggia a vedere le stelle, avrebbe avuto un contorno di vestitini scollacciati e bagno nudi sotto la luna. Ora, temendo una congestione o quantomeno una colite, ci presentiamo all’appuntamento con la sabbia notturna coperte di golfini e scialletti, scarpe chiuse, pantaloni lunghi e sorriso intirizzito di chi spera che sia una cosa breve. Anche solo pochi anni fa non avrei mai sentito un uomo dire a una donna sulla spiaggia di notte: “Per favore, scusa, puoi levarmi la testa dalla spalla che mi si blocca l’articolazione?”.