mercoledì 22 dicembre 2010

Legamenti e incrociati

Capita talvolta di interrogarsi sul significato, il valore e il calore assunto dai legami che intessiamo nel nostro pendolare per il mondo. Sì, oggi mi prendete così. Con la filosofia in punta di lingua. Per cominciare, accordiamoci sulle definizioni: cosa sono i legami? Si tratta di vincoli, l’etimologia parla chiaro, e ci sono un sacco di persone che questi vincoli li percepiscono come dei limiti. E, diciamolo, siamo tutti tentati di mandarli periodicamente all’aria i nostri legami, anche solo per qualche ora, il tempo di sentirci soli con la nostra libertà. A qualcuno piace, la solitudine, probabilmente anche a me se avessi il tempo di farne esperienza, anche se non ne sono certa, data la mia conclamata vocazione alla condivisione.

La casistica delle relazioni possibili è illimitata e potrete suggerirmi voi quali sono le più appaganti e quali invece le più opprimenti, scegliendo tra i legami amorosi, le relazioni, i parenti, gli amici, gli amanti. Ogni tipo di incrocio affettivo è concesso.
Un legame sa colorarsi di molte diverse sfumature: può comporsi di affinità, trasporto, patti impliciti o meno di solidarietà, coinvolgimento. Un legame sa mutare, sa prendere la forma dei vincolati e sistemare tra loro degli istinti a volte troppo forti e sconcertanti per arrendersi al limite di una definizione. E quando parlo di vincolati, libero la parola da tutte le sue accezioni negative.
Io voglio provare a dare la mia personale descrizione di legame. È un tentativo: io ti sono legata dal momento esatto in cui mi rendo conto di quanto sia importante per me sapere che stai bene. È molto semplice in fondo: io soffro per l’impotenza di fronte al tuo dolore, soffro sotto la pelle. E allo stesso modo godo intimamente, nella pancia, di fronte alla tua gioia, alla contentezza quando ti ammorbidisce i pensieri.

mercoledì 15 dicembre 2010

Basta mettersi d'accordo


senti


mh

non facciamoci troppo male

secondo me è un po' tardi


lunedì 13 dicembre 2010

Pendolo ergo sum

La mia identificazione con Trenitalia sta raggiungendo il suo culmine. Me ne sono accorta questa mattina mentre, affondata nel sedile in attesa che il mio treno lasciasse la stazione, ho sentito gli altoparlanti gracchiare che il mio binario, e quindi il treno stesso, era cambiato. Ma gracchiavano lontani, quelle voci metalliche dei messaggi preconfezionati, distribuiti a tutta la stazione e che rimbalzano senza destinatario tra l’atrio e le vetrine dei negozi. C’è stata quella frazione di secondo nella quale la notizia è arrivata al mio cervello senza che in realtà io l’avessi ascoltata. Nella frazione di secondo successiva i passeggeri, tutti insieme, si sono alzati di scatto guardandosi l’un l’altro con un cenno di intesa e conferma, precipitandosi con giacche e borse buttate di traverso sulle spalle in direzione delle uscite, per correre sul nuovo treno assegnato, in partenza qualche metro di banchina ghiacciata più in là. Io no. Io ho sollevato la testa dal libro che stavo fingendo di leggere, ben sapendo che mi ci sarei addormentata cinque minuti dopo la partenza, ho raccolto le mie cose senza fretta, ho anche infilato la sciarpa e il cappello e raggiunto l’uscita con addosso una tale rassegnata quiete che i pendolari che mi correvano accanto mi superavano lasciandosi scappare delle bestemmie nemmeno tanto timide.
Ecco, io sto diventando Trenitalia e c’è del patologico in questa affermazione. Io talvolta mi rassegno, non mi scompongo. Non sono in genere in ritardo, ma possiedo l’insana predisposizione a gestire il tempo con tabelle orarie codificate dalle quali trarre spunto per la scansione dei giorni. Come un locomotore, attraverso campagne gelate e centri urbani, sobborghi e periferie, con la calma accettazione di un destino di ineluttabile movimento. Due cose spero: di essere sempre io quella alla guida e di non difettare in igiene personale, ma non mi stupirei se mi si intasasse periodicamente il cervello per eccesso di sollecitazioni.

domenica 5 dicembre 2010

Buona notte fiorellino

Sia un problema di cinismo o di cervicale, io non riesco a dormire abbracciata a un uomo. Non ce la faccio proprio. Ho smesso di dormire abbracciata a un uomo la prima volta che c'ho provato. Ho preso sonno, romanticamente appesa al suo braccio, ma dopo venti minuti mi sono svegliata anchilosata, con il collo a pezzi e la spalla costretta a un'innaturale torsione. Da quel momento basta. So di non essere l'unica con questo problema, ma so anche per certo che esistono donne che non riescono assolutamente a dormire se non stanno messe a cucchiaio col loro amato. Io non ho di queste esigenze. Al limite mi piace dormire cercando un contatto fisico, una mezza aderenza, con una mano, un fianco, i piedi. Ma stop. Vietati gli abbracci. Perché poi è molto peggio svegliarsi per spostarsi, con le mani informicolate, o anche sentirsi ricacciati nel proprio lato del letto e allontanati ché fa caldo. E, diciamolo, ci sono uomini che di notte fanno cose strane. A me è capitato di dormire con uno che ha passato metà del tempo, nel sonno, a cercare di sfilarmi il cuscino da sotto la testa, in modo anche piuttosto violento. Ho poi passato la notte con un insonne. Vi è mai capitato? Uno che ti sta sdraiato accanto con gli occhi sbarrati nel buio? Inquietante. Il risultato è che il pensiero di lui sveglio ti costringe a un tentativo di lucidità, se non altro per esser solidale. E al mattino sei più stanco di prima. Poi ci sono le notti in cui sei tu l'insonne, perché hai accanto un mezzo sconosciuto e passi metà del tempo, mentre lui sogna beato, a chiederti che cavolo ci fai lì. Certo, molto dipende anche dall'attività svolta immediatamente prima di prendere sonno. Se ti metti giù con l'idea di dormire e basta hai tutto il tempo di sistemarti e prendere le distanze necessarie. Se invece hai appena fatto l'amore può capitare che ti addormenti come un sasso, messo a ics con complicati giochi di incastro con l'altro corpo, nudo, per poi svegliarti nel cuore della notte pieno di freddo, cercando il pigiama, e con un braccio bloccato da un principio di periartite.

lunedì 29 novembre 2010

Nudo d'inverno

c'è un lungo bacio che mangia e che morde; ci sono mani, le sue, che mi percorrono la schiena, che cercano la pelle sottile dei fianchi sotto al maglione

ehi, ma cosa c'è qui sotto?

la camicia

sì, ma sotto quella dico, dov'è la schiena? quanti strati hai?

c'è una tshirt...

ok... ma sotto?

un body

fanno quattro livelli di indumenti?

eh

sì, ma sei io adesso volessi, per esempio, spogliarti?

mi prendo un giorno di ferie

giovedì 25 novembre 2010

Lezione di portamento

E’ tutta una questione di atteggiamento. Non importa quanto disinvolto sei o quanta sicurezza il tuo linguaggio riesce a trasmettere: l’importante è crederci. O fingere. La sostanza in fondo è la stessa. Sapete cosa mi fa credere che almeno ci stiate provando? No, niente a che vedere con battute a sproposito o pantomime dialettiche. Non serve che parliate per forza. Io guardo prima di tutto la vostra postura. Non intendo annoiarvi con quelle osservazioni retoriche sul linguaggio non verbale, le potete trovare a centinaia su google in pochi secondi, vi racconto invece quello che vedo io quando vi guardo. Mi riferisco allo spazio che occupate nel mondo: su con la schiena! Non è semplice metafora e non lo dico soltanto per evitarvi dolori articolari o per farvi respirare meglio. Non vi sto nemmeno incoraggiando alla nobile fierezza né alla dignità dello sguardo. Vi sto incoraggiando semplicemente a camminare diritti, ad accomodarvi tenendo il vostro bel sederino in linea con la vostra incantevole nuca. Assorbite le scapole, tenete le spalle larghe. Passeggiate come se la sommità della vostra testa volesse sfiorare le nuvole. O anche solo il soffitto. Io non vi capisco quando vi ingobbite, quando sedete accartocciati, quando vi presentate raggrinziti su voi stessi. Guardate che si nota. Potete anche non dire una parola per una serata intera, ma se rimarrete seduti in mezzo alla gente con lo sguardo dritto e con il mento parallelo al suolo non verrete ignorati. Perché non dovete essere brillanti a tutti i costi, dire cose intelligenti al momento giusto, né intervenire per forza in tutte le discussioni. No. Quello che vi si chiede è di essere presenti e per esserlo iniziate a garantire al vostro corpo e al vostro respiro lo spazio che si merita.
Mi viene da puntarvi un ginocchio in mezzo alla spina dorsale quando mi accorgo che vi stanno cedendo le spalle, quando si abbassano e riducono la distanza tra la vostra fronte e il pavimento. Lo so che così state più comodi, ma pare che la soluzione più comoda non sempre sia quella prevista. Né quella migliore.
Naturalmente tanto rigore nelle vertebre ha i suoi effetti collaterali. Una collega una volta mi apostrofò simpaticamente come la Signorina Scopa nel Culo. Spassosa eh? Da morir dal ridere.

lunedì 22 novembre 2010

Libri che mi fanno godere

Oggi scrivo un post colto. Ché tanto l’avete capito che talvolta mi piace darmi arie da intellettuale snob. Comincio col raccontarvi del mio personale rapporto con le librerie. È facile: il libro è l’unico bene che acquisto senza pensare che sto spendendo dei soldi. Non viene inserito nel mio bilancio insomma, è come se si trattasse di euro mai usciti dal portafoglio. C’è gente che finisce sul lastrico così. Non io, animata come sono da una controllata pianificazione del budget di cui, a volte, mi vergogno. A minare la mia cauta propensione alla spesa irresponsabile ci pensa l’avvento di una nuova, scintillante, enorme, irresistibile Feltrinelli alla stazione di Torino, che spesso mi accoglie pendolare. E ho di nuovo comprato dei libri. Ne ho comprati parecchi, ma di due autori vi voglio parlare perché quando li ho avuti tra le mani ho pensato che c’era qualcosa di assurdo nel fatto che mi piacessero così tanto entrambi: Sándor Márai e Chuck Palahniuk. Un americano che porta le sue trame all’eccesso, costruendo imbrogli narrativi inverosimili e spettacolari, accanto a un ungherese morto suicida, capace di far monologare un suo personaggio per 180 pagine nelle quali non succede praticamente niente. Sono autori che amo di un amore diverso nato in momenti diversi. Vi capita mai di ripensare a dei libri come se fossero colonne sonore? Ricordarvi che cosa succedeva mentre vi stavate mangiando certe pagine?
L’ungherese l’ho scoperto qualche anno fa, grazie a un’amica che mi regalò Le braci. Da allora regalo Le braci a tutte le persone che amo. Il suo secondo libro che ho incontrato, La recita di Bolzano, l’ho letto integralmente sdraiata su un prato, sotto l’albero di un piccolo giardino, invece di scrivere la tesi. Mi ricordo l’attesa, mi ricordo che aspettavo di rosicchiare quelle mezz’ore alle mie giornate universitarie. Dopo diversi altri romanzi, ho smesso di frequentare Márai con L’ultimo dono, letto in un giorno e una notte d’estate, senza mai uscire dal letto e senza mai smettere di piangere. Quindi l’acquisto di un suo nuovo romanzo, Il sangue di San Gennaro, arriva dopo una lunga pausa e non vedo l’ora di cominciarlo.
Palahniuk invece è una scoperta recente. Di pochi mesi fa. Animata non so da che genere di curiosità, ho tirato fuori dalla libreria Fight Club e non ho mai sollevato il naso dalle pagine finché non l’ho finito. In poche settimane ne ho letti altri due. E ora ho comprato Ninna nanna, che però leggerò dopo aver finito Soffocare. Lo leggo mentre pendolo, attirando sguardi curiosi: può una fanciulla dall’aspetto angelicato quale io sono mostrare un tale perverso interesse per romanzi nei quali le relazioni sono brutali e la commedia si intende feroce?
È verosimile pensare che la mia attrazione per due scritture così distanti tra loro risponda a esigenze dissimili. Ho evidentemente bisogno di soddisfare il mio immaginario attraverso narrazioni capaci di sorprendermi con strumenti diversi. Ma vi risparmio l’autoanalisi del lettore.
Vi lascio invece con una citazione, che è di Palahniuk ma secondo me lo pensava anche Márai poco prima di spararsi:
non mi va di morire senza qualche cicatrice addosso.