lunedì 12 dicembre 2011

Le cose che so fare. Esercizio di stile.


So andare in bicicletta e fingere disinvoltura infilando certe strade in contromano. Parlo inglese e francese e so risolvere equazioni di secondo grado. So far sì, entrando in una stanza, che la gente taccia e mi ascolti. O almeno: che simuli di farlo in modo del tutto convincente. So persuadere. Sono capace di avvolgere i miei arti in posizioni di yoga di cui non ho mai imparato il nome. Ho il dono dell’equilibrio, della calma e dell’ubiquità. Ho sviluppato uno speciale talento nel risolvere controversie tra amanti, litigi tra fidanzati e dispute tra coinquilini. So mettere in fila le parole e so distinguere l’anacoluto dall’ipallage. So scegliere una bottiglia di calvados e distinguo i rum venezuelani da quelli giamaicani. Conosco le proporzioni del negroni e tengo sempre in fresco una bottiglia di martini. So tacere, so zittirmi e possiedo in dote la lucidità. Ho un rapporto maturo e consapevole con la procrastinazione. Ma anche con la determinazione. Cucino con dovizia le uova al tegamino e il mio albume ha la crosticina, ma non si asciuga, e nel mio tuorlo si può intingere il pane. So grattarci sopra la giusta dose di tartufo. So oziare e intendo prendere lezioni di volo.

Segue l’elenco dei vostri, di talenti. E' un ottimo esercizio, lo prescrivo a tutti.

Hanno fatto i compiti ed eseguito lo stesso esercizio:
Chiaratiz
Available in blue
Violette
Bea

venerdì 9 dicembre 2011

Le cose che non so fare


Non ho mai imparato a cantare. Non so essere davvero impulsiva. Il freddo mi indispone e la fame mi rende cattiva. Non so resistere alle tentazioni e per fortuna sono poche le circostanze che reputo davvero tali. Non so fare a meno della razionalità e vorrei saper piangere in pubblico. Non ho mai saputo disegnare, non coltivo alcuna arte e, in natura, non sono così bionda. Non son capace di essere diretta. Non so affrancarmi dal senso di colpa né dalle errate convinzioni sessiste e vivo come un peccato la mia naturale tendenza all’emancipazione. Non conoscevo, fino a poco fa, il significato della parola appretto. Non rinuncio, se non di rado, ad ambigue forme di egoismo. Non riesco a moderare l’acqua sotto la doccia, specie d’inverno, cosicché ne spreco a secchiate. Non mi astengo quasi mai da presunzione, superbia ed immodestia. Non mi risparmio in consigli non richiesti. Non so ancora nascondere la tenerezza, quando mi si infila, subdola, tra le pieghe degli occhi. Non so fare a meno di una pericolosa disposizione all’atarassia. Non so resistere al sonno.


Mentre scrivevo questo pezzo, totalmente in negativo, ho avuto come un déjà vu e ho verificato che ho scritto qualcosa di simile poco più di un anno fa. In pratica possiedo una naturale predisposizione a descrivermi in difetto. Materia da psicanalisi.

domenica 13 novembre 2011

Due bottoni spaiati


Ci sono alcuni gradi sopra lo zero e il novembre torinese sta per il momento sonnecchiando, senza anticipare i freddi che pur saprà garantirci tra non molto. Questo per dire che ancora riesco a coprirmi con poco e il piumino adatto al rigore invernale lo tengo a portata di mano ma ancora non ho avuto bisogno di indossarlo. Però da qualche giorno è appeso qui, pronto all’uso.

Mentre lo tiravo fuori dall’angolo dove lo metto a riposare tra la primavera e l’estate mi sono accorta che ha due bottoni spaiati. Due bottoni che non c’entrano niente col resto e che fanno l’occhiolino da sotto al colletto. Chi siete? ho pensato. E poi mi è tornato in mente che a questo piumino mancano quei due bottoni. Mancano da tempo in realtà, persi chissà dove e sostituiti, un giorno, con altri due, simili ma non uguali. E ho pensato che erano divertenti quei due bottoni diversi, quasi tondi ma non proprio tondi, né lisci come gli altri, di un nero un po’ differente.

Sono due bottoni indipendenti, che talvolta rivendicano la loro autonomia e che minacciano periodicamente la secessione. Hanno il compito preciso e irrinunciabile di creare delle piccole fratture nella simmetria, nella regolare sequenza delle asole.

giovedì 3 novembre 2011

Cinque anni fa

Cinque anni fa mi sono laureata. Oggi mi prendete dunque così, a far dei bilanci che nemmeno a Capodanno. Anzi, è qualcosa di diverso, perché non sono i bilanci quelli che mi hanno preso la mano e portato su questo groviglio di parole proprio adesso. I bilanci arrivano dopo eventualmente e quando ricorrono i lustri ci stanno anche bene, ma non ora, perché quel che mi conduce adesso sono i ricordi. Tanto nitidi e perfetti da pensare che sia accaduto stamattina. Ricordo di quel giorno ogni dettaglio. Giornata di sole, ma fredda. Abito verde, stivali verdi, parigine nere, cappotto bianco. Arrivai prestissimo, in treno, con due ore di anticipo. Passai qualche tempo sul pianerottolo della scala antincendio della facoltà, a respirare benessere nell’aria limpida del giorno dei morti. Ricordo che mi veniva da ridere perché non mi mollava un motivetto di Tiziano Ferro che passava per radio quelle settimane. Avevo in tasca un biglietto per Roma, dove sarei rimasta nei giorni successivi, a regalarmi passeggiate solitarie lungo le mura di Castel Sant’Angelo. Poi scendo in sala lauree, prego si accomodi, cominci pure. Ho scritto 200 pagine sulla retorica della persuasione. Dura un’eternità, non mi mollano. Sento alle spalle una zia che sbuffa. Un vecchio professore biascica di figure retoriche innominabili. Poi finalmente finisce e si racconta che sia iniziato il resto della mia vita. Il che è falso, perché il resto della mia vita è iniziato quel giorno da bambina in cui ho imparato a scrivere. Ma questo magari lo racconto un’altra volta.

sabato 15 ottobre 2011

L'attesa, l'apnea


Trattenere il fiato come sott’acqua. Ogni battito di ciglia rischia di compromettere la percezione stessa dell’attesa, la perfetta stabilità della sospensione temporale. L’apnea brucia energie con parsimonia, controlla l’ora, i giorni, i calendari, con l’urgenza degli eventi ineluttabili. Esercita il controllo sul tempo con rigore, senza lasciare che il panico guasti la disciplina dell’immobilità.

L’attesa mangia se stessa, non ha bisogno di altro. Talvolta si alimenta con brevi pause durante le quali il pensiero crede di liberarsi. Ma in realtà sta solo verificando, timidamente, quanto è lungo il guinzaglio che lo strattonerà nel momento in cui dovrà far ritorno al nucleo di partenza.
L’attesa, appunto.

sabato 8 ottobre 2011

Piedi impavidi


Ci vuole del coraggio a denudare simili assurdità. Lo dico con tutto il rispetto. Eppure c’è gente che questo coraggio lo trova. Incomprensibilmente, ne convengo. Il piede ha da essere affusolato, aggraziato ed elegante per essere davvero seducente. Qui troviamo invece l’ostentazione del disinteresse di dio per certe armonie. Le ditina, lontane dai loro modelli di virtù sottili e snelli, sono tozze, goffe e di uguale forma e dimensione. Non c’è una differenza sostanziale tra il timido mignolino e il ditino che gli sta accanto. La proprietaria di queste ludiche estremità, sfrontatamente esposte al mondo, dovrebbe esser contenta di aver di nuovo la giusta temperatura per nascondere il tutto dentro a un paio di pavidissimi stivali. Ma loro, gli sfacciati, hanno già iniziato a scalpitare, promettendo prossime fughe e nudità assortite.

domenica 25 settembre 2011

Bicervella

una volta, molto tempo fa, qualcuno mi disse:

"mich, tu non hai un cuore,
hai due cervelli;
certo può essere che uno dei due
si trovi al centro del petto
ma non ci giurerei"

lì per lì mi sembrò un complimento

domenica 18 settembre 2011

Mi fa male la faccia


Da qualche tempo ho una malattia della pelle. Avete presente? Certo che avete presente, ma pensate, con torto, che se avete superato indenni i 17 anni la cosa non vi riguarderà mai più. Lo pensavo anch’io. Finché ho dovuto arrendermi all’evidenza: brufoletti, pustoline e vescichette, di presenza periodica ma regolare in punti ben precisi della mia faccia, non potevano essere legati all’alimentazione, né all’abuso di sostanze irritanti per il fegato, fritture, alcool né salami. No. La diagnosi me l’ha fatta il medico: acne microcistica mentoniera. Che significa che la curva tra mento e collo, sulla mia faccia, è al momento ricovero di infiammazioni piuttosto bruttine e, soprattutto, molto dolorose. Perché quello che forse nessuno sa o fatica a ricordare è che il problema non è solo il simpatico brufolo, né la cicatrice che il suddetto lascerà, quanto il senso di bruciore, prurito e dolore che ti accompagna per giornate intere. Ammesso che a qualcuno venga voglia di fare cheek to cheek con me, non potrà farlo senza che l’irritazione mi punga le guance, costringendomi a ritrarmi sofferente.

L’acne a 30 anni risponde probabilmente a qualche oscura legge del contrappasso ed è possibile che io stia espiando qualcosa, anche se mi sfugge cosa. Forse solo la vanità.

Al momento sto affrontando il problema con tutte le armi che la scienza mette a mia disposizione e sono in cura presso una dermatologa, un’omeopata, un maestro yoga e un parrucchiere.

La dermatologa dice che si tratta di sbalzi ormonali molto comuni e mi ha prescritto cremine, unguenti e detergenti che mi stanno decomponendo: i risultati ci sono ma gli effetti collaterali comportano la perdita della pelle a squame. Scommetto che la peculiarità dell’immagine vi sta provocando una piccola smorfia tra il disgusto e il pietoso. Anche a me.

Per questo frequento pure un’omeopata, che dopo avermi fatto 60 minuti esatti di domande molto personali ha decretato che si tratta di stress e mi ha invitato ad assumere granuli, gocce, fialette. Tre volte al giorno, ma qualcosa a giorni alterni, solo la sera, 15 minuti prima dei pasti, alternando le palline sotto la lingua. Combatto quindi lo stress con una cura che mi impone sforzi mnemonici molto stressanti. Ma la pazienza è virtù che mi appartiene e giungerò in fondo alla terapia.

Il maestro yoga ha invece notato che pendo leggermente verso sinistra mentre faccio la verticale poggiata sui gomiti, in una posizione che si chiama calamba shirsasana. Da questo ha diagnosticato uno squilibrio interno ai miei chakra e mi ha imposto cicli di meditazione e controllo della respirazione. Quando resterò dritta come un giunco in equilibrio sulle ulne mi tornerà la pelle di pesca, è scientifico.

Tra tutti i miei medici, del fisico e dell’anima, quello che mi dà più soddisfazione è comunque il parrucchiere, che ha deciso di curarmi con massaggi cranio facciali e impacchi restituivi alle doppie punte.

venerdì 9 settembre 2011

Le transenne



Una delle due non ha sedici anni.

Una delle due biondine di spalle dico. Una delle due dovrebbe aver smesso da qualche tempo di perdere il sonno sulla versione di latino, sul ragazzo della migliore amica e sulle equazioni di secondo grado. E invece capita, talvolta, che senza preavviso, in una sera qualunque, i sedici anni tornino e facciano compagnia. Senza timori nostalgici, soltanto con la loro energica intuizione di vitalità. Non dirò di come le due sedicenni, la vera e la falsa, si siano trovate una sera di settembre al concerto di Avril Lavigne; né dirò di come le due suddette, titolari di un biglietto con pregevole posto numerato, abbiano invece scavalcato le transenne per correre a perdifiato giù, fino al parterre; né, naturalmente, di come le due, ma soprattutto una, per esperienza maturata sul campo, sia riuscita a ottenere dalla security,  con un onesto frullio di ciglia, che le lasciasse passare, per arrivare sotto al palco. Né dirò della maglietta, delle foto sceme davanti allo specchio, degli autoscatti con le boccacce.

Dirò solo che una delle due non se lo ricordava più di quanto scavalcare le transenne fosse esaltante. L’attimo in cui, un piede via l’altro, si sale e ci si ferma per un secondo a cavalcioni per poi balzare giù, consapevoli, dall’altra parte, concede istanti di preziosa euforia. Istanti in cui senti l’equilibrio dai talloni fino alle cosce e, anche se ti accorgi che non è stabile, quell’equilibrio, ti fidi lo stesso dei tuoi passi e salti, mentre l’apnea di quei minuti lascia il posto a un respiro prepotente.

lunedì 8 agosto 2011

L'errore. L'altrove.


Mi è successa questa cosa. Una cosa terribile, gravissima, in grado di mettere in discussione le mie certezze fino all’ultima. Uno di quegli episodi ancor più spaventosi perché nascondono la loro tragicità nell’apparente ordine del quotidiano.

Ho sbagliato treno.

Una vita da pendolare e non mi era mai successo (se si esclude quella volta, negli anni Novanta, in cui andavo al liceo ma non scesi in tempo alla mia stazione e arrivai a scuola due ore dopo facendo autostop sulla statale, ma quella non conta).

Io prendo il treno per lavoro ogni giorno alla stessa ora, vale a dire all’alba delle 7.15, e il mio regionale pidocchioso si trova ogni giorno sullo stesso binario. Salvo oggi. Sul mio binario, e sottolineo il mio, perché io sviluppo una qualche forma di possesso su fatti, oggetti ed eventi del mio quotidiano, c’era un treno per altrove. Ma non mi sono accorta della modifica. Anzi, ancora peggio: me ne sono accorta entrando in stazione e guardando distrattamente il tabellone con gli orari: “Il mio treno è due binari più in là stamattina”. La cosa veramente incresciosa è che io ho scordato, rimosso, dimenticato questa preziosa informazione nel tempo esatto che ho impiegato ad attraversare l’atrio. Quindi sono andata ad accomodarmi al mio posto abituale, sul mio solito vagone. Ho aperto il libro attualmente in corso e ho chiuso gli occhi nell’attimo stesso in cui il convoglio ha iniziato il suo pigro movimento lungo i binari.

Li ho riaperti poco dopo, mentre il treno si fermava. Nella sequenza temporale ormai acquisita delle soste, quella frenata non era prevista. Ho guardato fuori dal finestrino e ho pensato che mi stava capitando qualcosa di surreale, che stavo ancora dormendo e che ero prigioniera di una qualche specie di sogno. Al di là del vetro c’era l’altrove. Ed era identico a questo:

Le Officine Grandi Riparazioni esistono ancora, sono identiche a quelle in fotografia e si trovano appena fuori dalla stazione di Torino Porta Nuova. Immagino si chiamino diversamente, anzi, il tizio che mi ha trovata sul treno mi ha detto semplicemente: “che ci fa lei in officina?”. Già, che ci faccio io in officina? Come ho fatto a salire con incosciente tranquillità su un treno perfettamente vuoto, deserto e silenzioso? Realizzo in quel momento l’errore. L’istantanea registrata dal mio cervello poco prima: “Il mio treno è due binari più in là stamattina”.

“Lei deve scendere”
“Suppongo di sì”
“Ma lei non può scendere”
“Prego?”
“Faccia attenzione”
Sono in piedi sulla soglia. Là fuori ci sono file parallele di treni immobili, sottoposti a manutenzioni misteriose. Sembra notte. Operai affaccendati passano senza guardarmi, nessuno sembra far caso alla mia presenza. Nella penombra a decine di metri di altezza si muovono informi colossi in acciaio.

Questo non è reale.

“Devo andarmene”
“Sì, deve andarsene”
“E come faccio?”
“Dove deve andare?”
“Alla stazione. Devo seguire i binari?”
Lo so che è irrazionale ma mi sembra la via più facile: cammino a ritroso lungo la strada appena percorsa.
“Non può tornare indietro lungo i binari. È pericoloso”
“Ah”
“Cammini parallela a questi due treni fino a che non trova una passerella sulla sinistra”.
Preferisco non spiegare al tizio che ho problemi concreti a distinguere la destra dalla sinistra e chiudo a pugno la mano con cui non scrivo, per ricordarmi la direzione.
“Poi svolti e prosegua dritto. C’è una stradina appena fuori dall’edificio”
Questo non è un edificio. Questa è l’anticamera dell’oltretomba. Ma non mi sembra il caso di dirlo ad alta voce.
“E poi?”
“Vada sempre dritto. Sulla destra alla fine troverà un cancello”. La destra, oddio. Prima la sinistra e poi la destra. Ce la posso fare.
“Se è chiuso cerchi un portoncino più piccolo, lì accanto. Se è chiuso anche quello deve trovare il pulsante dell’apertura automatica, che però è un po’ nascosto, dietro un muretto. In basso a sinistra e …”
“Ok ok. Ho capito”
“Sì?”
“Sì sì, seguo la stradina”
“Prima la passerella sulla sinistra”
“Sì, certo”
“Stia attenta”

Cammino. Incrocio creature operose e indifferenti. Svolto. Cammino. Cancello. Aperto.

Esco. Fuori è Torino ed è giorno.