domenica 10 giugno 2012

Tradita dalla vanità: questione di sfumature

Tradita dalla vanità, come spesso succede. La dermatologa, per via di certi miei malanni in via di guarigione, mi ha intimato di non prendere nemmeno un raggio di sole. Io, è noto, sono ubbidiente e applico con scrupolo idratanti a schermo totale e fondotinta protettivi. È il 10 di giugno e sono di un candore epidermico abbagliante. Ma vorrei un poco di colore. Solo un poco, giusto una doratura.

Mi faccio dunque tentare dai magici fluidi autoabbronzanti: credo alle promesse di beltà e splendore e mi ci impegno con il metodo che mi contraddistingue. Sono anni che mi spalmo oli, unguenti e creme, con mano uniforme e dita capaci, vuoi che non riesca a fare lo stesso con questo po’ di colorante in superficie? E così mi faccio un peeling e spalmo, solo sulle gambe. L’odore non è gradevole, ma spero di sentirlo solo io. Dopo tre ore ho le gambe abbronzate. A chiazze. C’è da dire che i piedi sono uniformi, anche se di una sfumatura leggermente diversa, che vira sull’ocra. Più su, una riga decisamente netta mi divide in due la coscia sinistra, nel punto esatto in cui ho applicato la striscia di crema: da una parte sono abbronzata, dall’altra tendo leggermente al rame.

Decido di uniformare il tutto sotto la doccia: recupero il guanto da scrub e massaggio piano in mezzo ai vapori. In pochi istanti osservo sgomenta l’acqua ai miei piedi diventare color ruggine. La mia abbronzatura posticcia raggiunge in un attimo lo scolo e il mio consueto pallore fa capolino su cosce e polpacci. Almeno, questa era la speranza. Chiudo l’acqua, esco dalla doccia e mi asciugo. Fingo di non accorgermi che ho lasciato tracce di mogano sull’accappatoio color crema e mi vesto. Ora indosso un paio di shorts e non faccio che guardarmi le gambe, pensando che mi riconoscereste facilmente: sono quella con le ginocchia arancioni.

giovedì 7 giugno 2012

Il gioco dei se


Se il piano Marshall non avesse incluso l’Italia. Se non avessi imparato ad andare in bicicletta. Se non ci fossi caduta, dalla bicicletta. Se non mi avessero letto tutte quelle storie, da piccola. Se avessi studiato davvero danza classica e mi fosse piaciuto il tip tap. Se nel 1994 avessi smesso di essere la prima della classe. Se non ci fosse stata Trenitalia. Se avessi avuto amiche meno sincere. Se non avessi mai studiato ad Aix-en-Provence. Se il ragazzo dagli occhi blu avesse mantenuto la promessa: “Dopo le vacanze ci rimettiamo insieme”. Se non fossi nata in periferia. Se avessi imparato il tedesco. Se avessi indossato gonne meno corte. Se avessi studiato matematica. O fisica. Se non mi fossi intestardita con le biblioteche di filologia classica. Se John Lennon non fosse mai nato e Fabrizio De Andrè fosse stato un avvocato. Se non avessimo mai importato il sushi dall’estremo oriente. Se nei parchi cittadini fosse vietato sdraiarsi sotto agli alberi. Se tra i 12 e 18 anni fossi andata in vacanza al mare. Se non avessi corteggiato una ad una tutte le mie amiche. Se sapessi resistere ai giochi di parole. Se fossi nata calva. Se non mangiassi meringhe, angurie e cioccolato. Se mio padre non mi avesse fatto ascoltare arie liriche e Lucio Battisti durante tutti i viaggi in auto della mia infanzia. Se non avessi fatto la scema con il professore di latino. Se fossi astemia. Se fossi vissuta ai tempi del Diluvio. Se avessi accarezzato meno gatti e più illusioni. Se fossi nata pessimista o, peggio ancora, fatalista. Se la Svizzera non fosse mai stata un paese neutrale. Se le uscite di sicurezza non fossero allarmate. Se invece di scrivere su un blog avessi continuato con la vecchia faccenda del taccuino.