venerdì 29 ottobre 2010

Al limite

Insomma, bisogna essere realisti e riconoscere i propri limiti. Io ne ho una serie. Non parlo ovviamente di quei limiti che possiamo avere in comune, ad esempio non mi cruccio di non saper guidare un elicottero, di non parlare il giapponese o di non aver mai imparato a cucinare il brasato al barolo. Mi riferisco a incapacità di altra natura, inadeguatezze di tipo più quotidiano.
Tanto per cominciare io non so fischiare. Non ho mai imparato, nonostante mi ci sia applicata con metodo e continuità. Niente da fare: la magica fessura canterina tra labbra denti e lingua, nella mia bocca, non produce alcun suono. Non parliamo poi dei fischi da capitano di rugby, quelli con due dita in bocca e la potenza sonora di una nave da crociera: l’unico risultato che ottengo è quello di sbavarmi sulle falangi e sputacchiare in faccia ai presenti.
Va da sé che non so arrotolare la lingua. Mi sfugge il possibile uso pratico della lingua piegata in due, ma chi riesce a farlo giura di servirsene periodicamente.
Poi non so fare l’occhiolino con l’occhio destro: riesco a strizzare solo la palpebra sinistra, la destra no, non risponde ai miei comandi.
Non so nuotare: galleggio e sguazzo, ma l’elegante bracciata dello stile libero non mi appartiene.
Non so nemmeno correre, dal momento che sono del tutto priva di resistenza alla fatica fisica. Dicono che basti allenarsi, che poi si spezza il fiato e via: io, per non affrontare rischi inutili, mi sono convinta che spezzare una baguette col salame sia più che sufficiente. Motivo per cui mi guardo bene dal partecipare alla prossima Stratorino, nonostante si cerchi di convincermi che la possono fare tutti. A parte il fatto che non possiedo le scarpe adatte e non ho niente da mettermi, temo che sei km per me siano troppi: l’unica corsa che riesco a portare a termine è quella verso il binario, la mattina, quella che mi permette di non perdere il treno.
Ancora: non so perdere il controllo. Questo forse ve l’avevo già detto. Qualcuno sostiene sia un pregio: non è vero. Dipende da cosa dovete farci, con il controllo.
Come vedete di limiti ne ho parecchi.
Più di tutto, comunque, temo l’ingerenza di un limite in particolare, l’unico contro il quale io mi stia impegnando quotidianamente, a volte con un successo che incoraggia audacia e determinazione, a volte invece lasciando colpevolmente strada al fallimento. Il limite di non sapere guardare oltre i miei limiti.

giovedì 28 ottobre 2010

Per sentito dire



- E non fare niente che io non farei


- Non mi sembra un buon consiglio



mercoledì 20 ottobre 2010

Via col tempo

Tempo, comunque vadano le cose lui passa. Oggi, come spesso accade, mi concedo un argomento banale, noto, inflazionato da secoli di speculazioni romantiche e non solo: il tempo. Il seguire dei giorni, lo scorrere delle settimane, l’avvicendarsi delle stagioni.

Domanda: voi ci credete a quella vecchia leggenda che il tempo cancella, diluisce, attenua ogni cosa? Che assegna agli eventi un posto diverso da quello che pelle e cervello continuano a proporre? Il problema è che siamo creature temporali. Mi spiego: se fossimo immersi nell’eternità come qualcuno vorrebbe farci credere, ci sarebbe molto semplice farci colare addosso i minuti, non li sentiremmo neppure scorrere, non ne avremmo coscienza e quest’assenza di tempo ci renderebbe beati. Ma tanta saggezza ci è preclusa, almeno: è senz’altro preclusa a me.

Vi faccio qualche esempio. Cominciamo con un assioma: viviamo il tempo come se fosse spazio. Voglio dire che quando desideriamo che i giorni passino in fretta, che soffino via, succede in genere perché, letteralmente, vogliamo allontanarci, come fosse da un luogo, da una qualche avventura che insiste per restarci addosso. Desideriamo questo nell’illusione che la distanza la renda più digeribile, dimenticabile magari. O le cambi forma. O che cambi la nostra, di forma, offrendoci in cambio la lucidità di giudizio. A questo punto possono accadere due cose:
1. Lo spazio di tempo che riusciamo e mettere tra noi e ciò che vogliamo dimenticare ci tormenta. Ci strazia. Tipicamente accade quando abbiamo il seguente ricorrente pensiero: “ok, sono bravissimo a gestire questo alternarsi delle stagioni, quant’è passato? Saranno tre secoli minimo. Sono stati atroci ma sono sulla buona strada dell’oblio”. Poi guardi meglio e son passati due giorni.
2. Lo spazio di tempo che riusciamo e mettere tra noi e ciò che vogliamo dimenticare, in qualche modo, smette di torturare. Non è verificabile come, ma pare che succeda. Sul calendario può trattarsi di un mese come di un lustro, anche un paio di decadi nei casi impegnativi, ma il dolore (amore, odore, languore) si è effettivamente diluito. Trasformandosi in nostalgia, che presenta ben altri problemi e magari una volta ne parliamo.


mercoledì 13 ottobre 2010

Torino, una dichiarazione d'amore

Certe città t’illudi di possederle e dominarle. Città che fanno credere che sia possibile violarle, conoscerle nei viali, nei giardini. Sono città lineari, ortogonali sulla carta, composte di fiumi e corsi lunghissimi che la attraversano con risoluta decisione. Torino, vista dall’alto, è una composizione apparentemente perfetta di rette parallele e perpendicolari. Una maglia fitta di angoli retti.
Qualcuno potrebbe pensare a una gabbia. C’è gente che ci è diventata matta a Torino, che ha iniziato a parlare con i cavalli. Ci sono leggende di magia nera, antri infernali, riti pagani e culti profani. C’è una singolare concentrazione di intellettuali suicidi. Io non la vedo la gabbia. A me piace riconoscere le vie, sapere che posso girare attorno a un isolato e trovarmi senz’altro al punto di partenza. Sapere che a volte, per andare avanti, bisogna tornare indietro, dove si è cominciato. In una circolarità rassicurante che però ammette di variare i percorsi, di modificare il passo, perché l’eleganza di una città nuda e accessibile come Torino è quella di offrirsi sempre nuova nella ripetizione dei suoi schemi. Qualcuno la teme perché in quei marmi levigati e nella successione scandita delle vie sembra riconoscere un’eleganza marziale. Ma chi ha paura degli schemi dei quartieri, o chi scova la noia nella difficoltà di perdersi, ha capito poco della forza di certi passi. Forse l’attrazione che esercita su di me è nella varietà che si riconosce nella sua ripetizione, nella confortante calma della scansione dei suoi spazi. C’è della sensualità nel riconoscere il corpo di una città, o una città in un corpo. Il labirinto della carne come il labirinto delle piazze.
Lasciarsi sedurre dalla scoperta improvvisa, inaspettata, che certe strade, anche qui, non vanno da nessuna parte.


mercoledì 6 ottobre 2010

Polifedele

Io non sono un’infedele. Sono una polifedele.

L’ho guardata a lungo, senza capire. Una polifedele?

Certo, replica lei.

Tutta colpa di un articolo che campeggia beato sulle pagine di una nota rivista. Non l’avevo notato. E dire che sono abbonata. Recupero l’articolo e mi documento. Quella che segue è la mia interpretazione dei fatti.

Un polifedele, in pratica, è qualcuno che, per eccesso di emotività, di amore e di generoso espansionismo sentimentale, è incapace di avere una relazione alla volta. Le relazioni devono essere minimo due, più varie ed eventuali. I polifedeli si dividono in due categorie: i diversisti, che cercano compagni che non si assomigliano per niente, e i collezionisti, che preferiscono invece la presenza rassicurante di tipologie umane molto simili tra loro. Fatti due conti, la mia amica risulta essere una polifedele diversista, assolutamente felice di aver trovato, sulle pagine di una rivista alla moda, l’istituzionalizzazione codificata delle sue capriole affettive. Naturalmente è stata spiegata anche la differenza tra la polifedeltà, nuova frontiera della poligamia, e l’infedeltà, ormai sorpassata da decenni di bypass della coscienza: l’infedele, povero lui, si macera di sensi di colpa, si tortura e si tormenta; il polifedele, invece, non si pone il problema e vive tranquillo e per lo più sereno. In sostanza il polifedele è autorizzato, per natura e imprescindibile necessità, a condurre la propria monogamia contemporaneamente su più fronti. L’infedele, infelice, non ne è in grado.

Illuminante, no?