venerdì 30 marzo 2012

Il solito posto


Esistono due tipi di abitudinari: quelli che cambiano posto e quelli che prediligono sempre lo stesso. Si tratta della doppia faccia della stessa abitudine: quella che abbiamo di appropriarci dello spazio attraverso meccanismi riconoscibili. Io li distinguo facilmente quelli che vagano da quelli che ritrovi sempre al solito posto. Io appartengo al secondo gruppo: possiedo un posto bici, la terza transenna da sinistra di fronte alla stazione; cerco libero il sedile nel consueto vagone, in genere a destra della peruviana che legge un libro diverso ogni dieci giorni; ho due metri precisi di staccionata davanti cui parcheggiare, sempre gli stessi; ho mandato a memoria una sequenza di vie da attraversare pedalando e durante la lezione di yoga me ne sto sempre in ultima fila, sul tappetino accanto alla porta.

Per convenzione si tende a considerare che al primo gruppo appartengano gli impavidi, o diversamente pavidi: coloro che non temono la forza del cambiamento, oppure, di riflesso, che temono a tal punto il rischio dell’abitudine da trovarsi talvolta a forzarsi al movimento. Nel secondo gruppo, invece, si troverebbero i radicati, gli stanziali, quelli che hanno bisogno dei rituali per riconoscersi nel proprio cammino.

Le due categorie non sono inconciliabili e trovano evidenti punti di contatto. Io qualche volta mi diverto a mettere alla prova la mia percezione della realtà facendo piccoli esperimenti di straniamento: devio bruscamente strada nel pedalare verso casa oppure salgo sull’ultimo vagone del treno, quello dove gli adolescenti la mattina presto ascoltano la musica a volume illecito e giocano a carte invece di studiare. Ma ci transito soltanto, non riesco a prendere posto. Ho come l’impressione di essere a casa di qualcun altro. Sul mio vagone è tutto diverso: se un quindicenne tiene l’ipod a volume abbastanza alto perché io possa sentirlo in genere mi alzo personalmente pregandolo, con il peggiore dei miei sorrisi, di abbassarlo. Ma devo dire comunque che nel mio vagone, quello di mezzo, i ragazzi di norma la mattina studiano latino o si raccontano storie d’amore con linguaggio sprovvisto di decenza. La peruviana scende tre fermate prima di me e a quel punto non mi resta che spiare la riccia impiegata che incontro due volte al giorno, quella che si difende da misteriosi germi spruzzando antisettici a buon mercato sulla fodera lisa dei sedili e che sta lentamente consumando l’intera bibliografia di Danielle Steel.

Credo che entrambe le modalità di appropriazione dei luoghi abbiano in fondo un nocciolo di qualche patologia e tutte e due andrebbero combattute quando esasperate. Ne sono consapevole ma tendo, come sempre, all’autoassoluzione.

Ad ogni modo non sono da sola in questa forma di piccola radicata follia e c’è da dire che la peruviana mi assomiglia molto: non l’ho mai vista seduta altrove.

lunedì 26 marzo 2012

Mi piacciono le città di fiume, la primavera e le trite parole che non uno osava

Mi piacciono le città di fiume. A Torino ce ne sono tre, di fiumi. Talvolta hanno preteso e ottenuto di fare paura e, gonfi d’acqua e di fango, hanno reclamato il loro diritto a sfiorare le sponde a piacimento. Ma non adesso. Queste sono le settimane dell’erba fresca sotto i piedi nudi, dei parchi e dei giardini. Del Po che scorre in fondo alla discesa, pacifico, dei canottieri e dei remi. Delle vetrate sull’acqua del Fluido e delle panche screpolate degli Imbarchini. Ed è azzurro ed è verde. Di quel verde che viene voglia di addentare. Mi piace quando la città fa rumore senza disturbare. Quando viene voglia di gelato, quando il sole è troppo caldo ma all’ombra fa ancora fresco. Quando leggi sdraiato su un prato, sotto alberi amici e urbanizzati, ogni tronco una targhetta numerata. E ti fanno compagnia uccelletti impertinenti, rumoracci meno bucolici di marmitte sputacchianti, poi campanelli di biciclette, qualche bambino frignante e un timido respiro di foglie.