
Se fa male vuol dire che fa bene. Me lo diceva sempre mia nonna quando mi disinfettava le ferite vive con l'alcool puro. Era sempre così: io mi sbucciavo un ginocchio giocando in giardino e mi veniva da piangere non tanto per la sbucciatura in sé, ma perché temevo il momento in cui avrei dovuto presentarmi da lei per la medicazione di rito. Ogni tanto facevo finta di niente, continuavo a giocare e rientravo in casa a sangue ormai rappreso, con una crosta di fango e piastrine. Lei mi beccava subito, prendeva lui, il maledetto denaturato, e via: fiotti di liquido infiammabile per togliere la crosta di impurità e pulire a fondo la ferita ancora fresca. Per fortuna la ricerca scientifica, tra le sue mirabili scoperte mediche, ha incluso quella che ha portato alla diffusione dei disinfettanti che non bruciano. E fanno bene lo stesso. Capito? Non fanno male e, nonostante questo, fanno bene. L'ho presa alla lontana per parlare di questa cosa: è proprio necessario stare male, contorcersi dal dolore, soffrire e disperarsi per stare bene? Qualche volta sì, ma ho il ragionevole dubbio che, mentre mi arrotolo in una posizione di yoga dai conclamati benefici, se sento cric a livello delle rotule e poi zoppico, quei benefici li vedrò molto difficilmente. L'acido lattico, per dirne un'altra, se vi devasta per giorni dopo aver fatto palestra, immagino che non vi stia facendo bene affatto. Quando lo abbiamo inventato questo culto del dolore? Sospetto che il catechismo abbia avuto i suoi meriti, insieme a tanta bella educazione al senso di colpa: stai male, non importa per cosa, stringi i denti ché di certo te lo sei meritato. Una forma di espiazione insomma. Ecco, io me ne vorrei liberare. Sia dal concetto di espiazione che, quando possibile, dal concetto di dolore. Devo stare per forza male per tornare a stare bene? Ammetto che, a un certo livello, detta così faccia parte del ciclo naturale delle cose. Però. Accidenti. D'accordo. Devo stare male. Ma per quanto?